Che lo sport faccia bene a tutti, piccoli e grandi, è un dato di fatto. E che il movimento, possibilmente all’aria aperta, debba sostituire il tempo passato davanti alla TV o al computer è noto a tutti.
Spesso, però, noi genitori ci troviamo davanti al dubbio su quale disciplina sia più adatta per i nostri figli in base alla loro età.
Sapevate, ad esempio, che prima dei 7 anni sono più indicati gli sport individuali? E che solo dagli 8 anni in poi è consigliato passare agli sport di squadra?
Come hanno spiegato gli esperti dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma, far praticare uno sport ai propri figli è necessario per una crescita armonica.
Ecco alcune indicazioni, fornite da loro, per orientarsi tra le varie discipline.
Nei primi 4-5 anni di vita l’attività sportiva deve favorire la conoscenza del proprio corpo nello spazio.
Il nuoto è uno sport completo, che è bene praticare fin da piccoli poiché per il bambino l’acqua è l’ambiente più congeniale. Non per niente, è uno degli sport più diffusi tra i bambini sino a 10 anni.
Oltre a questo, sino ai 7-8 anni sono consigliabili attività individuali quali atletica leggera (marcia, corse, salti, lanci) o ginnastica che aiutano a migliorare la coordinazione neuromotoria.
In seguito si può passare a sport più specialistici e di squadra.
Le discipline sportive collettive – calcio, pallavolo, pallacanestro, pallanuoto, rugby, pallamano e hockey – piacciono ai bambini dai 7 anni in su poiché all’ impegno atletico si somma il gioco e lo spirito di squadra. Collaborare tutti assieme per raggiungere il risultato, è un messaggio che viene codificato proprio a partire da questa fascia di età.
E il calcio è nella maggior parte dei casi la scelta preferita.
Dopo i 9-10 anni ci si può accostare a discipline più specializzate, che richiedono anche il contemporaneo utilizzo di un attrezzo, come avviene nella scherma, nel tennis e nel tiro con l’arco. Nel caso di sport che sollecitino in modo particolare la schiena, come la danza e la ginnastica artistica, è utile abbinare una pratica in grado di “compensare” gli eventuali squilibri di postura.
In ogni caso è fondamentale la certificazione medico-sportiva. La normativa nazionale, integrata da regolamenti regionali, oltre al medico dello sport, assegna anche al pediatra di famiglia e al medico di base il compito di rilasciare il certificato non agonistico.
E’ invece compito esclusivo del medico sportivo rilasciare la certificazione agonistica.
A volte i genitori sono preoccupati che l’impegno nelle attività sportive vada a discapito del buon rendimento scolastico, specialmente in età adolescenziale. Se è vero che l’attività agonistica, praticata a certi livelli, richiede allenamenti costanti e lunghi campionati, è anche vero che i ragazzi che la praticano incrementano la capacità di coordinare studio ed attività extrascolastiche imparando a costruire programmi e a rispettarli e accrescono, attraverso lo sport, l’abitudine a rispettare regole e avversari come pure a gestire le frustrazioni di sconfitte o mancate convocazioni.
Il binomio sport e scuola può quindi essere una carta vincente. Praticare attività fisica nella scuola di appartenenza, sul modello anglosassone, con risultati sportivi che si integrano con quelli scolastici permetterebbe a molti giovani di evitare l’abbandono sportivo, fenomeno che si verifica intorno ai 14/16 anni.
La pratica dello sport è, infatti, massima tra i ragazzi di 11-14 anni (70,3%, di cui 61% in modo continuativo e 9,3% in modo saltuario) e tende a decrescere con l’età.
Circa l’80% dei ragazzi pratica sport in età prepuberale e di questi il 20% dei maschi e il 40% delle ragazze ne interrompe poi la pratica. Spesso in questo abbandono concorrono, oltre agli impegni scolastici, la difficoltà e i costi per raggiungere il luogo dove si pratica sport.
Creare e mantenere nei giovani una mentalità nella quale l’esercizio fisico abbia un ruolo primario è un investimento per il futuro.
L’abitudine al fumo, per esempio, è molto ridotta negli adolescenti sportivi rispetto ai sedentari.
Praticare sport, inoltre, permette di conoscere e contattare persone in carne e ossa e non virtuali e mette sicuramente un limite all’uso patologico dei social.
E di sicuro ne guadagna la salute, fisica e psichica.