libro famiglia felice
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Una famiglia felice… chi non la vorrebbe? Ecco il metodo!

Ve lo confesso, di questo libro non è stato tanto il titolo (Il metodo famiglia felice) quanto il sottotitolo (Come allenare i figli alla vita) ad avermi incuriosita.
Quale genitore moderno (la precisazione non è casuale, come leggerete più avanti!), infatti, non si pone continue domande e molteplici dubbi sui propri metodi e modelli educativi?
E’ meglio se mando mio figlio al nido o se lo tengo a casa sino all’inizio della scuola materna?
Come posso favorire la sua autonomia in un mondo dove regnano la fretta e le scadenze (per gli adulti)?
Quali sono i comportamenti più giusti da adottare per aiutarlo a superare le sue paure e farlo crescere sereno?
Sono solo alcuni dei tanti quesiti che passano per la testa dei genitori e che, ovviamente, aumentano man mano che i figli diventano più grandi.
Aver letto questo libro non mi trasformerà certamente in una mamma “coach” infallibile (cosa che, peraltro, sarebbe controproducente come spiegano bene gli autori) ma mi ha fornito tanti utilissimi spunti di riflessione che vorrei condividere con voi.
Alcuni di questi – proprio per poterveli raccontare meglio – li ho anche approfonditi a voce con Barbara Tamborini, psicopedagogista, che ha scritto questo libro con Alberto Pellaipsicoterapeuta dell’età evolutiva. Due professionisti estremamente competenti ed esperti sia sul fronte teorico sia su quello pratico, considerando che hanno 4 figli! 😉
Ecco quindi gli aspetti che mi hanno più colpita del libro e della piacevole ed interessante chiacchierata con l’autrice:

  • Un figlio sicuro di sé (dove per sicurezza si intende la capacità di un figlio di non sentirsi minacciato dal nuovo e di sentirsi al sicuro anche quando i genitori non sono immediatamente accessibili) ha molte più probabilità di essere anche un figlio felice.
    Un preadolescente che sin dall’infanzia abbia coltivato un buon modello di autostima avrà meno problemi ad attraversare lo “tsunami” della crescita, saprà resistere meglio alla pressione dei pari e non si troverà costretto a sperimentare comportamenti a rischio e trasgressioni molto pericolose solo per sentirsi valoroso e importante all’interno del suo ambiente e agli occhi del gruppo di amici.
  • Affrontare una sfida, vincerla e perderla sono aspetti che fanno parte della vita di tutti i giorni. Un bambino deve poter sbagliare senza per questo essere giudicato un buono a nulla. Gli errori sono parte delle esperienze di chi prova a fare qualcosa di nuovo e vanno considerati come possibilità di crescita.
  • Sino ai 3 anni i bambini non hanno particolare bisogno di socializzare: certo, possono stare con i coetanei, interagire e giocare ma la loro priorità è avere a disposizione un adulto competente e significativo che li faccia sentire sicuri e protetti. Proprio come un’automobile, che ogni tanto deve fermarsi alla pompa di benzina per fare il pieno, il bambino nei primi tre anni di vita ha bisogno di essere costantemente “rifornito” di amore, sicurezza ed energia dalle persone che gli vogliono bene. Sentire di avere un adulto a propria disposizione e che si dedichi a lui in via esclusiva è per il bambino un’esigenza primaria.
    Dopo i 3 anni le cose cambiano. I bambini sono pronti non solo per esplorare il mondo ma per farlo in compagnia dei propri simili, che diventano un supporto necessario. A quest’età un amico rappresenta qualcuno con cui giocare e condividere nuove avventure. Non è facile, però, imparare a stare con una persona che ha abitudini, ritmi, modi di fare differenti dai propri. Ecco perché le prime esperienze di socializzazione devono essere accompagnate e guidate a distanza dagli adulti.
  • Investire nelle relazioni con gli altri, aiutare i propri figli ad entrare in una rete di rapporti interpersonali, dedicando tempo, esperienza e pazienza ad accompagnarli e sostenerli in questi compiti sociali, è di fondamentale importanza per il loro sviluppo e per garantire l’ingresso nell’età adulta con un sufficiente senso di sicurezza sul piano sociale. Attenzione, però: stimolare la propensione ai rapporti interpersonali va bene ma non bisogna esagerare e caricare i ragazzi di aspettative eccessive.
    Se i rapporti interpersonali vanno sostenuti e accompagnati dagli adulti durante l’asilo e i primi anni della scuola primaria, a partire dai 7/8 anni i bambini li gestiranno sempre più in autonomia. Il ruolo dell’adulto è quello di osservare a distanza, di essere disponibile quando serve.
  • Potenziare l’autostima scolastica di un figlio è un compito imprescindibile per ogni genitore. Dichiararsi orgogliosi per le sue vittorie, confortarlo dopo una sconfitta, ammettere che nessuno è perfetto, aiutarlo ad imparare dai propri errori, non stigmatizzare o far credere irreparabile un fallimento: tutto questo serve ad allenare un bambino ad amare e apprezzare il proprio impegno scolastico e lo aiuta a considerarsi capace di affrontare compiti complessi e traguardi ambiziosi.
    Una buona autostima scolastica si ottiene anche attraverso la conquista di una crescente autonomia nella gestione dei compiti e dello studio. Troppo spesso i genitori organizzano in modo puntuale e costante le sessioni di studio del figlio: a volte si ha l’impressione che certe mamme e papà non siano lì ad aiutare il ragazzo a studiare bensì stiano studiando con lui, se non addirittura al suo posto. Avere una buona autostima scolastica significa sentirsi capaci di tenere sotto controllo i propri impegni, compiti e lezioni compresi. Ecco perché all’inizio della scuola primaria e secondaria di primo grado è importante aiutare un figlio a impostare un metodo di gestione dei compiti (primi due anni di scuola) e delle lezioni (dal terzo anno in poi). Ma lo scopo deve essere renderlo autonomo e non dipendente dal nostro intervento di accompagnamento o addirittura di sostegno, monitoraggio e controllo.
  • La famiglia dovrebbe essere per tutti il nido caldo dove rifugiarsi quando fuori fa freddo, la ricarica quando il morale è a terra e ci si sente insoddisfatti e incapaci di affrontare le piccole e grandi sfide. Inoltre, la famiglia dovrebbe essere la palestra dove farsi i muscoli per affrontare la vita fuori casa.
    Per chi sta crescendo sentirsi trascurato o addirittura rifiutato dalla famiglia e dalle proprie figure di riferimento è un’esperienza molto dolorosa, che disorienta. E accade più spesso di quanto si creda. Molti bambini sono figli fragili di genitori fragili, tanti si trovano sospesi tra una mamma e un papà ancora alla ricerca della propria identità, del proprio posto nel mondo, e quindi spesso in crisi e affaticati. Ecco, allora, che l’esperienza di coppia o di genitorialità, invece di proiettare l’esistenza verso una maggiore responsabilità, semina in queste persone ancora più dubbi. Per riuscire a dare attenzione a un figlio servono adulti maturi e sufficientemente stabili, capaci di comunicare tra loro, di affrontare un problema, di risolvere un conflitto.
  • La qualità della relazione che regaliamo ai figli è l’ingrediente principale con cui potranno, da grandi, affrontare la vita con un senso di sicurezza e protezione.
    Essere stati “visti” con il cuore, la mente, le emozioni e i pensieri dai genitori ci permette, una volta adulti, di vedere a nostra volta la mente e il cuore delle persone che la vita vorrà metterci a fianco. E vedere un bambino per davvero non significa proiettare su di lui le proprie aspirazioni, trasformarlo in una protesi dei propri desideri, puntare l’indice su ogni singolo fallimento scolastico, ma dargli la possibilità di essere la persona irripetibile, unica e speciale che è e che sta cercando di diventare.
  • Molti piccoli, nei primi anni di vita, hanno paure che sono quasi fisiologiche: la paura del buio, di stare da soli in una stanza, dei mostri sotto il letto sono i sintomi del disagio profondo di chi deve imparare ad affrontare la vita senza la vicinanza protettiva degli adulti. Dopo il primo anno, infatti, i genitori non possono più stare costantemente con i figli, che a poco a poco devono imparare a fare da soli. Questo “addestramento alla vita”, però, necessita di tempi adeguati e di molta pazienza. Non c’è nulla di peggio, per un cucciolo d’uomo, di un genitore che vuole fargli bruciare tutte le tappe e renderlo autonomo troppo in fretta. Del resto, è problematico anche il contrario: non insegnare a un bambino a reggersi sulle sue gambe e ad andare incontro alla vita con le proprie forze rischia di renderlo eccessivamente dipendente dalla protezione dell’adulto. Il piccolo sarà allora timoroso e pauroso, perché sente dentro di sé di non essere degno della fiducia dei grandi, i quali, standogli così addosso, gli lanciano il messaggio che da solo non potrà mai farcela.
  • Giocare con un figlio è il miglior modo di testimoniargli quanto la reciproca relazione è fonte di felicità condivisa. Se gioco con te è perché mi piace stare al tuo fianco, ridere e divertirmi. Se gioco con te è perché questo aspetto mi rende felice e porta allegria nella nostra vita e nella nostra giornata. Nulla più di un genitore coinvolto e disponibile ma soprattutto pronto a vivere il piacere della relazione con un figlio – proprio come succede nelle attività di gioco – “nutre” l’autostima in famiglia.
    E dovremmo ricordarcelo più spesso, noi genitori del terzo millennio, che in tante situazioni siamo molto più preoccupati dall’ansia di essere genitori perfetti piuttosto che dal desiderio di vivere con piacere la relazione con i propri figli.
    Da una parte, infatti, è senz’altro aumentata in noi genitori moderni la motivazione a voler far bene, a darci da fare e ad interpretare al meglio il nostro ruolo, dall’altra però spesso fatichiamo a dedicare ai nostri figli la giusta attenzione. E finiamo per passare del tempo “vicino a” loro e non “con” loro. Per questo è fondamentale trovare delle cose che ci piace fare insieme ai nostri figli e ritagliarci degli spazi, anche solo 20/30 minuti, tutti per loro, dove non ci sono cellulari a portata di mano o altre distrazioni di qualunque tipo.
    Un momento che deve essere vissuto infatti come un’esperienza di condivisione emotiva tra il genitore e il proprio figlio.

Il messaggio finale del libro (che vi invito veramente a leggere perché l’ho trovato davvero utile e interessante) è un inno all’imperfezione.
Le persone che hanno realmente un buon modello di autostima sono le persone più consapevoli della propria imperfezione, di qualche area di inadeguatezza, di certe zone di vulnerabilità con cui hanno imparato a convivere. Non si sentono perseguitate dagli errori né ossessivamente stimolate a negarli e cancellarli dalla propria esistenza.
Accettarsi per quello che si è, nell’ottica di migliorarsi, ma soprattutto nella prospettiva di rincorrere quella felicità che ci è realmente possibile e accessibile, è il pre-requisito per condurre un’esistenza soddisfacente orientata al principio di realtà.
Perché una famiglia felice non è quella che non ha nessun problema! È piuttosto una famiglia consapevole, che ha un progetto e una direzione, che non improvvisa le scelte educative.

E, soprattutto, precisano gli autori, colmare di speranza nel futuro i pensieri e i desideri dei nostri figli è la migliore eredità che possiamo lasciare loro, affinché vadano incontro alla vita con entusiasmo e passione.


nella foto in alto la copertina del libro e i due autori (credit: Guido Leonardi)